Il Bene, il Bello e quelle storie che cambiano il (nostro) mondo

Intense e significative le “storie di cittadinanza attiva”, secondo il titolo della manifestazione, raccontate nella serata di lunedì 21 luglio a Frosinone, nello spazio incantato a bordo (e… strabordante di pubblico) della piscina WeSport ex Enal, uno spazio diventato negli anni ricettacolo di scarti, anche umani, ma restituito al cuore della città dalla “Parsifal”, come ha raccontato il presidente del Consorzio, Daniele Del Monaco. Ospiti della serata – promossa anche dalla Rete Trisulti Bene Comune e dalle diocesi di Anagni-Alatri e Frosinone-Veroli-Ferentino –  il regista e conduttore tv Pif (pseudonimo di Pierfrancesco Diliberto) e tre giovani della cooperativa sociale La Paranza, che a Napoli gestisce anche le catacombe di San Gennaro e lo Jago Museum. E proprio prendendo spunto dall’iniziativa nata nel quartiere Sanità, grazie anche all’intuizione del parroco don Antonio Loffredo, nel suo saluto iniziale l’amministratore apostolico Ambrogio Spreafico ha rimarcato due parole chiave: sdegno e coraggio «che però ci richiamano anche alla speranza, tema del Giubileo, in un tempo così difficile, dove in tanti Paesi c’è la guerra, e rispetto al quale non possiamo continuare a dire: ma io cosa posso fare? E lamentarci e basta, dando la colpa agli altri. E’ necessario provare sdegno, davanti alle ingiustizie e alle violenze, sdegnarsi davanti a tutte le guerre, alle vicende dell’Ucraina, di Gaza, del 7 ottobre. Così come è necessario costruire. E voi – ha detto ai ragazzi della Paranza – avete deciso di costruire un mondo migliore attraverso la Bellezza, avete riconosciuto che c’era un seme di bene in tutti, che doveva fiorire e diventare giardino». Anche Maria Elena Catelli, presidente di Rete Trisulti Bene Comune, ha portato un saluto, sottolineando che «questo incontro, come quello del mese scorso con Tomaso Montanari all’Accademia di Belle Arti, vuole essere un’occasione per confrontarci su come la responsabilità personale e collettiva, espressa in particolare nella cura del patrimonio culturale, possa divenire uno strumento concreto, non solo per migliorare i luoghi in cui viviamo, ma anche e soprattutto per migliorare noi stessi. Il prof. Montanari ci ha detto la volta scorsa che se ci prenderemo cura della Certosa di Trisulti, scopriremo che sarà la certosa la nostra cura.  Don Antonio Loffreda, in un passaggio di una intervista, ha detto: “Non so dire, oggi, se sono stato io a prendermi cura del rione Sanità o il rione Sanità a prendersi cura di me”. Ecco, il prendersi cura della bellezza, del creato, del nostro patrimonio culturale, del prossimo, a noi della Rete sta particolarmente a cuore. C’è tanta strada da fare e possiamo e dobbiamo farla insieme». I giovani della cooperativa napoletana – opportunamente stimolati dalle domande e dalle riflessioni del giornalista e presidente dell’Associazione Gottifredo di Alatri, Tarcisio Tarquini – hanno quindi raccontato le loro esperienze personali e, in un colpo solo, il passato, il presente e soprattutto il futuro della coop e del quartiere in cui è immersa, non poi così “difficile” se la voglia di cambiarlo arriva da esperienze come questa. Daniele, Antonio e Giuseppe, come la cooperativa ha poi tenuto a rimarcare sui social, hanno condiviso «la storia di un gruppo di giovani che ha scelto di restare nella propria città, prendersi cura di un luogo abbandonato, trasformandolo in un’opportunità per sé e per gli altri. Con Pif ci siamo ritrovati a riflettere su qualcosa che spesso diamo per scontato: la cultura non è solo qualcosa da conservare, ma un modo di abitare i luoghi e costruire comunità». E proprio Pif è stato un po’ il mattatore della serata, con i suoi racconti che hanno spaziato anche sul ruolo di una certa tv di inchiesta, sul suo far venire allo scoperto certi temi di denuncia sociale ma il non essere giornalista («Le risposte poi devono darle le istituzioni, la politica, la magistratura»), senza sottacere del suo legame forte con Frosinone, a motivo di parentela, laddove dalla sua Palermo e dalla sua decisione di entrare nel mondo del cinema «ma senza fare niente perché questo accadesse», “rischiò” di finire per lavorare come assicuratore, chiamato da una zia. Su tutto, uno dei suoi lavori più conosciuti , “La mafia uccide solo d’estate”, e una certa narrazione di un’antimafia divenuta un po’ un clichè, ma che invece è nella storia e nell’operato personale di ognuno e di tutti i giorni, «anche nell’operatore ecologico che si adopera per pulire bene il suo quartiere di Palermo o di Napoli». di Igor Traboni

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