Una riflessione, da fine biblista qual è, sull’Alleanza, ma anche un richiamo a vivere di più – e forse anche meglio – il Cammino sinodale, così come a dare importanza ad un ascolto (dai giovani ai vecchi) che raccolga anche le istanze di un mondo in continuo e veloce cambiamento, con la Chiesa chiamata ad interpretare certi linguaggi senza rimanere ancorata alle pur importanti tradizioni.
Potremmo sintetizzare così l’intervento del vescovo Ambrogio Spreafico tenuto nel pomeriggio di domenica 26 febbraio al centro pastorale di Fiuggi e davanti ad una platea stracolma di operatori pastorali arrivati da ogni angolo della diocesi. Una riflessione a voce alta «per il tempo in cui siamo – ha esordito Spreafico – che è un tempo difficile in cui i legami e le relazioni si attenuano, con la tentazione dell’io che diventa preponderante, che ci porta a chattare invece di incontrarci, che ci vede tutti più guerrafondai perché abbiamo perfino smesso di sognare la pace e alla fine non ci speriamo neanche più», ha commentato tanto amaramente quanto realisticamente il presule, ricordando anche la sua presenza nelle trattative di pace per il Mozambico portate avanti dalla Comunità di Sant’Egidio, con l’attuale presidente Cei Zuppi, dal 1990 al 1992 dopo 15 anni di guerra civile «e vi potrei descrivere cosa vuol dire costruire un processo di pace: non si conclude in un giorno. Ma noi abbiamo fretta e la fretta non paga, mentre la vita è fatta della pazienza, dell’ascolto, del dialogo, dell’amore che sa dare e rinunciare».
Ed ecco dunque il vescovo a sviluppare il tema dell’Alleanza, «di questa relazione di Dio prima con l’umanità e poi con Israele, che parte per l’appunto da quella con il Signore, perché ci sia un popolo, perché l’umanità sia popolo e non una serie di individui che camminano ognuno per conto proprio, magari guardandosi di sbieco e quando possono eliminando qualcuno lungo la strada. Questo non è il disegno di Dio e neanche il sogno di Dio. E anche quando Dio sceglie un uomo per costituire un’alleanza lo sceglie per un popolo, perché quell’uomo sia costitutivo, perché questa alleanza sia un’alleanza di popolo, di comunità. E quindi noi rappresentiamo, pur con i nostri limiti individuali e collettivi, un popolo, una unità nella diversità. Questo non dobbiamo mai dimenticarlo, perché quando noi ci riuniamo per l’Eucarestia e il sacerdote parla “del calice della nuova ed eterna alleanza” vuol dire proprio questo: che noi siamo degli alleati. E quando una comunità si dimentica questo purtroppo si condanna alla fine: uno se ne va, quell’altro litiga, quell’altro parla male, uno è contro i catechisti, l’altro contro il parroco… Tutte dinamiche ridicole, perdite di tempo e per far male agli altri nelle nostre comunità».
Spreafico ha quindi ricordato che «la prima volta in cui nella Bibbia sui parla dell’alleanza in termini espliciti avviene con Noè, dopo il diluvio. Ma il diluvio – ha tenuto a sottolineare il presule, con un parallelismo con i giorni nostri – non è la punizione di Dio ma la conseguenza della violenza umana. E quando la violenza umana si trasmette, ne va di mezzo tutto il Creato; lo stiamo vedendo oggi con quello che succede con i problemi ambientali: abbiamo sfruttato la terra fino all’inverosimile e ci lamentiamo pure… Come se fosse colpa degli immigrati, ma li abbiamo creati noi gli immigrati avendo sfruttato e continuando a sfruttare Paesi interi. Nel diluvio avviene quello che Dio non aveva voluto perché aveva creato il mondo come una diversità nell’unità e nel diluvio tutto si mescola: è il caos. La violenza umana fa tornare il Creato nel caos ed è quello che sta avvenendo oggi».
E qui il vescovo ha introdotto la figura di Noè, con una dettagliata citazione biblica sul segno dell’alleanza: «E’ un testo molto bello perché quello che noi chiamiamo “arcobaleno”, il segno dell’alleanza, in realtà nell’ebraico questa parola “arco” è la stessa che si usa per “arma”, perché allora gli archi si usavano per combattere. Che cosa fa Dio, qual è il segno che dà dopo il caos del diluvio? Trasforma uno strumento di guerra in uno strumento di alleanza, una alleanza che ricompone la famiglia umana. Quando guardate l’arcobaleno ricordatevi che è uno strumento di pace, perché Dio ha voluto dare un segno chiaro: ricordati che se tu usi violenza è caos, hai distrutto l’alleanza, l’unità della famiglia umana».
Subito dopo Spreafico ha introdotto «un altro tentativo di distruzione della convivenza: la torre di Babele, con quei signori che volevano costruire una torre che raggiungesse il cielo, “facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra”; ma questa è l’omologazione, gli imperi vogliono tutti omologati, tutti uguali. Ma Dio non è d’accordo, perché Dio ha creato la diversità e la domanda di Dio è: come vivere insieme nella diversità senza distruggerci? Questo è il sogno di Dio per l’umanità, perché la diversità è una ricchezza», ha detto senza mezzi termini il vescovo, richiamando e raccomandando anche due libri («perché nella vita bisogna leggere! Non affidatevi a quelle quattro cose che vi mandano sul cellulare e pensate così di aver capito il mondo») del rabbino ebreo Jonathan Sacks: “La dignità della differenza” e “Non nel nome di Dio”.
Rispetto al sogno di Dio, ha ulteriormente argomentato il vescovo, oggi invece «rischiamo di andare verso la deriva di un mondo frammentato e di soli, sempre più soli, ma non quella solitudine che uno ogni tanto sceglie per riflettere o meditare, ma quella che rivela l’assenza di relazioni. E con la torre di Babele, con l’uomo che vuole essere come Dio, si arriva quasi ad un punto morto. Ma Dio non cede, non si rassegna, ed ecco Abramo e il nuovo tentativo di partire da uno per raggiungere tutti. Il sogno di Dio è sempre quello di provare a ricostruire l’unità della famiglia umana».
Il presule ha così tratteggiato la figura di Abramo «che non è un uomo sicuro, ma fa una scelta precisa: quella di fidarsi di questo Dio che non conosceva, di allearsi con lui; tutto è cominciato perché ha accettato di lasciare la sua terra, il luogo della sua origine, di separarsi un po’ da se stesso, da quello che aveva, e di andare in un luogo che non sapeva neppure dove, ma si fida. E’ bella la storia di Abramo a cui Dio affida un po’ il suo sogno di ricostruire un tessuto di relazioni, un‘alleanza, attraverso di lui, con l’umanità. Dio ricomincia sempre nella storia. E oggi ci siamo noi! Non dobbiamo sottovalutarci! Se siamo qui è perché ognuno di noi in maniera diversa ha ricevuto la chiamata e non deve dire c’è: tanto c’è il vescovo, il parroco, c’è quell’altro… No, ci sei tu! Dio ha bisogno di te nel posto dove sei. Lui ha affidato la vita a noi, il Creato a noi. E tu cosa dici: ecco manda me o ti acquatti dietro a qualcun altro?».
Molto interessante la parentesi che a questo punto il vescovo ha aperto sul Cammino sinodale: «Bisogna ricominciarlo, diamoci da fare, è una cosa seria, non perdiamo tempo. È il modo di vivere della Chiesa, delle nostre comunità, in cui ognuno impara, insieme agli altri, a confrontarsi, a riflettere, a pensare, a trasformare il nostro vivere. Non possiamo andare avanti sempre con le cose che abbiamo fatto, il nostro vivere va rinnovato; il mondo cambia ad una velocità impressionante. Non è che possiamo andare avanti con le nostre belle cose, anche giuste da fare, ma non si può vivere solo di queste: bisogna rispondere al dramma del Creato, di Thomas, di Emanuele Morganti, di Willy Monteiro. Bisogna che uno si animi di buona volontà e costruisca un pensiero che ci permetta di rinnovarci, di aiutare, di lavorare insieme, di trasmettere la bellezza di essere qui in tanti, del pensare insieme biblicamente. Per questo dico: coraggio! Ho trovato tanta bellezza nelle vostre comunità, tanto fervore, è un dono questo, siamo una forza nel mondo. Ma dove vedi tanta gente come stasera ad ascoltare uno che parla? Noi abbiamo delle cose speciali; e non lo dico per esaltarci, ma le comunità cristiane sono ancora uno dei pochi luoghi in cui la gente si incontra, si ascolta, prega insieme, pure per i nemici… Ma dove la trovi gente così?».
Chiusa la parentesi sinodale, il discorso è tornato a svilupparsi sulla chiamata per ognuno di noi all’interno dell’alleanza: «Siccome Dio ci ha scelti, noi dobbiamo dire: Signore, sono quello che sono, non sono il migliore del mondo però eccomi, manda me. E Mosè prima di dire “manda me” ce ne ha messo di tempo! Nessuno di noi è perfetto, però siamo delle comunità, ci possiamo aiutare; ognuno di noi ha sue fatiche, debolezze, pregi e qualità, ma insieme ci possiamo aiutare. Questa è la bellezza dell’alleanza che Dio ha fatto con Abramo e poi ha rinnovato con i patriarchi, con Mosè e il suo popolo. Dio non sopporta l’inimicizia, la violenza; l’inimicizia distrugge le relazioni, rende soli, distrugge i poveri, li umilia: questa è la violenza. Mentre l’alleanza è ospitale, è capace di accogliere tutti. Noi non siamo qui per dire che siamo i migliori, i più buoni e poi giudichiamo gli altri, ma siamo qui per ringraziare perché quello che siamo è dono di Dio; questo deve essere sempre chiaro. E mai giudicare gli altri, perché il giudizio allontana. Il male va corretto aiutando a fare il bene, ma giudicare è un modo per allontanarsi e sentirsi migliori; invece dobbiamo sì vedere il male, perché il male esiste, ma come Gesù dobbiamo avvicinarci al male per liberarlo con la cura, con l’amore».
Monsignor Ambrogio Spreafico si è quindi avviato a concludere, prima della recita dei Vespri, chiosando così e calamitando ulteriormente l’attenzione dei presenti: «L’unica via per vivere la gioia e la bellezza dell’essere nell’alleanza con Dio e tra di noi per essere popolo è: ascolta. Nel mondo si ascolta poco o niente; non ci si ascolta tante volte a casa, nelle nostre comunità, al lavoro. Siamo gente distratta… penso ai giovani e a come mi ha colpito la veglia di preghiera (per Thomas e tutte le vittime di violenza, ndr) tenutasi ad Alatri, con la loro grande attenzione e lo spirito di preghiera. Anche i vecchi hanno bisogno di essere ascoltati. Noi spesso amiamo discutere, ma ascoltare è un’altra cosa! E La parola di Dio ti cambia se l’ascolti. Ascoltiamoci tra di noi, prendendoci cura gli uni degli altri, andando d‘accordo anche con quelli che ti hanno fatto un torto: così ricostruiamo la bellezza della fraternità».
Igor Traboni