Ecco il testo completo dell’intervento di monsignor Ambrogio Spreafico per l’incontro interdiocesano degli operatori pastorali, tenutosi nella chiesa di Santa Maria del Carmine, a Tecchiena, domenica 25 febbraio 2024: 

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La Chiesa come assemblea

 

Cari amici e amiche, come ormai si usa dire oggi, siamo qui nel tempo di Quaresima per aiutarci a

vivere la nostra vita cristiana in questo mondo complesso e difficile, dove sembrano vincere le

guerre e la violenza, ma insieme l’assuefazione che ti fa pensare che tanto tu non puoi mai far

niente. A parte il lamento e la recriminazione, dipende sempre tutto dagli altri. All’inizio della

quaresima abbiamo ascoltato un invito di Dio attraverso il profeta Gioele, che non viveva certo in

un tempo migliore del nostro. “Ritornate a me”, ripete il Signore. E per ritornare dice al profeta:

“Convocate un’assemblea”, un popolo, una comunità. “Ritornare” è cambiare e convertirsi, come

si dice di solito. Ma convertirsi è tornare a Dio anzitutto. Ma, sottolinea il profeta, tornare insieme,

come popolo, come comunità. Ma noi ci crediamo che la Chiesa è comunità, popolo, e non un

insieme di individui, in cui ognuno fa la sua strada, che si incrocia con quella degli altri perché

almeno ogni tanto, forse la domenica si incontra con quella degli altri? Siamo in un mondo di io. Il

Covid lo ha evidenziato, ci ha abituato a stare da soli, a connetterci on line, ma non nella vita. E

così spesso si continua.

Cari amici, per sua natura, per fondamento, ogni cristiano appartiene a un “noi”, non è mai solo

un individuo che cammina da solo. Questo è già evidente nell’esperienza del popolo di Israele

come è narrata dalla Bibbia, poi fatta sua da Gesù di Nazareth e dalla Chiesa nascente. Israele si

concepisce come popolo, come assemblea, come insieme di individui che condividono una fede e

di conseguenza un’etica del vivere, che diventa anche un costituirsi particolare all’interno del

mondo. Per l’Israele della storia ciò non ha mai significato l’identificazione con un particolare

modello giuridico e politico: si è passati da una unità di tribù senza un governo unico (i giudici) alla

monarchia (Davide…), all’assenza di qualsiasi espressione politica unitaria e indipendente (la

diaspora), per poi giungere ai giorni nostri a uno stato, ma anche a un popolo che si riconosce nella

dispersione dei popoli come partecipe di un’unità legata all’origine, solo in parte alla fede e a

un’etica comune. Era tanto forte il senso di appartenenza e di interdipendenza che un profeta del

VI secolo a.C., Ezechiele (cap. 18), dovette intervenire per affermare la responsabilità individuale

di fronte al male commesso, per evitare che la colpa di un delitto fosse attribuita non all’individuo

ma a tutta la sua famiglia. E’ la stessa convinzione che Gesù combatte nel racconto giovanneo del

cieco nato in Giovanni 9.

Quest’idea fortemente assembleare del vivere insieme dei credenti nel Dio di Israele contiene

una verità affermata dalla Bibbia fin dall’inizio: la necessità del genere umano di concepirsi, e

conseguentemente di vivere, come individui interdipendenti l’uno dall’altro. Il racconto di Caino e

Abele, collocato proprio nei primi capitoli del libro sacro, costituisce un paradigma di questa

necessità assoluta, perché il venir meno ad essa conduce a una violenza omicida che mette in

pericolo il progresso stesso dell’umanità. Per la Bibbia non esiste un soggetto del tutto

indipendente e quindi staccato dalla collettività. Lo stesso avvenne fin dall’inizio dell’attività di

Gesù, che costituì un gruppo di uomini che lo seguivano stabilmente formando una comunità.

Questa dimensione viene descritta come fattore essenziale delle prime comunità cristiane

soprattutto negli Atti degli Apostoli. Il termine koinonia, comunione, ne è l’espressione compiuta.

La Chiesa si costituisce così come una koinonia di uomini e donne che fanno riferimento a un unico

Maestro e Signore. Atti 2,42-47 descrive in maniera concreta il senso della “comunione” della

prima comunità di Gerusalemme, modello di ogni Chiesa locale, ma anche dell’insieme della

Chiesa universale. .…Joseph Ratzinger scriveva in un articolo “La Chiesa «Communio»”: “In

quest’unico testo (At 2,42) si delineano così i numerosi livelli della communio cristiana, che

ultimamente rimandano a un’unica e identica comunione: la comunione con la parola di Dio

incarnata, la quale mediante la sua morte ci rende partecipi della sua vita e ci vuole così condurre

anche al servizio reciproco, alla comunione visibile e concreta” (in: Fede, ragione, verità e amore.

La teologia di Joseph Ratzinger, un’antologia a cura di Umberto Casale, p. 342). La comunione ha

un fondamento teologico, che poi si esprime, proprio per questo fondamento, come comunione

tra uomini e donne.

La koinonia è chiamata a diventare comunione di beni. I sommari del libro degli Atti (2,42-

47,4,32-35; 5,12-14) non puntano sul distacco dai beni materiali o su un ideale di povertà. Invece,

puntano sulla condivisione: se si condivide quello che si ha non è per essere povero, ma perché

non ci siano poveri nella comunità. La koinonia prende il volto concreto quando c’è una

condivisione che assicura a ciascuno quello di cui ha bisogno. Non esiste una comunità degna di

questo nome se gli uni vivono nell’abbondanza mentre che gli altri passano la fame.

 

La comunione come solidarietà e condivisione

 

Nella comunione cristiana si vive perciò la solidarietà, soprattutto a partire dai membri più

bisognosi. L’apostolo Paolo descrive molto bene l’appartenenza a un solo corpo, affermando che

proprio le parti “del corpo che sembrano più deboli, sono le più necessarie; e le parti del corpo che

riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto” (1 Cor 12,22-23). Così nella

comunione della Chiesa l’attenzione e la sollecitudine per i poveri ha un innegabile primato, che

già troviamo nei Vangeli e che Giovanni XXIII esplicitava in quella frase famosa: “Chiesa di tutti, e

particolarmente dei poveri”. La ben nota “opzione per i poveri”, nata in comunità cristiane che

contestavano la ricchezza interna ed esterna e chiedevano giustizia, è in verità parte integrante e

necessaria del modo di vivere del cristiano. Negli Atti degli Apostoli la “comunione” si esprime

anche nel fatto che “tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le

loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (2,44-45). Gli

esegeti attribuiscono questa situazione più a una tensione della prima comunità piuttosto che a

una realtà di fatto. Certamente fin dall’inizio il valore della solidarietà e alla condivisione era insito

nell’insegnamento di Gesù e degli apostoli come un aspetto essenziale. Questo aspetto della

“koinonia” appare come un modello per la società, soprattutto in questo momento storico, in cui

la solidarietà internazionale ha decisamente tagliato le ricorse da destinare ai paesi poveri, mentre

localmente i tagli alla spesa sociale rischiano di mettere in seria difficoltà intere fasce della

popolazione, mentre il divario tra poveri e ricchi è ormai un abisso sempre più proifondo. In

questo contesto la solidarietà cristiana introduce un ulteriore elemento di sfida alla mentalità

talvolta ristretta ed egoista della società: la gratuità. La gratuità evidenzia una solidarietà che non

esige il contraccambio, ma sa che esistono situazioni sociali e umane nelle quali non sarà mai

possibile riceverlo nella misura in cui sarebbe giusto secondo una giustizia retributiva. Il fatto che

nel brano evangelico del Mercoledì delle Ceneri Gesù metta al primo posto l’elemosina”, e non la

preghiera, come scelta per onorare Dio, colpisce e interroga. L’elemosina infatti avvicina a Dio

attraverso il povero.

La Bibbia considera la solidarietà e la condivisione una possibilità di uscita da una logica di

dominio assoluto del mercato, che caratterizza oggi il mondo e di cui, soprattutto ij questo tempo

di guerra, ne vediamo le conseguenze come sempre sui più poveri. L’icona evangelica del Buon

Samaritano dipinge un quadro che ben descrive il grande valore della solidarietà (Luca 10,25-37).

Nella parabola evangelica tutto parte dalla domanda di un esperto della Bibbia (dottore della

legge) sulla vita eterna e sul prossimo. Si tratta di uno studioso, non di un ignorante. La domanda

nasce dal fatto che l’esperto della legge “vuole giustificarsi”, verbo che non significa tanto addurre

delle giustificazioni a sostegno del proprio agire o pensiero, ma è al contrario espressione della

convinzione di una giustizia personale, l’affermazione di una situazione di giustizia di fronte a Dio

per quanto riguarda il proprio agire. La domanda è: Chi è il mio prossimo? Gesù risponde con una

parabola, cioè attraverso il linguaggio della vita e non delle opinioni più o meno intelligenti. Lo

sviluppo della parabola è lineare ed eloquente. C’è un uomo che sta scendendo da Gerusalemme a

Gerico e si imbatte in alcuni briganti, i quali, dopo averlo picchiato e derubato, lo lasciano mezzo

morto al bordo della strada. Passa un sacerdote, “lo vide e passò oltre”, dice il Vangelo. Lo stesso

fa un levita, un addetto al tempio. Poi passò un samaritano che “lo vide, ne ebbe compassione, gli

si fece vicino, fasciò le sue ferite, versandovi olio e vino, poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo

portò in una locanda e si prese cura di lui”. Qual è la differenza tra i primi due e il samaritano?

Tutti e tre lo videro, ma solo uno ebbe compassione. La compassione è un tratto fondamentale

dell’agire di Gesù nei Vangeli. È il contrario dell’indifferenza, della fretta che fa passare oltre,

vedere e allontanarsi. Il sacerdote e il levita non erano gente cattiva, anzi erano devoti a Dio. Ma

non basta non essere cattivi. Bisogna avere compassione, cioè assumersi il dolore degli altri, patire

con chi soffre, curare avvicinandosi e non scappando, come fa la nostra società davanti a chi è

debole e soffre oppure davanti ai migranti che fuggono carestie, cicloni, guerre, miserie. Certo il

samaritano non poté fare tutto da solo. Anche lui aveva i suoi impegni. Ma si prese cura di lui

portandolo in una locanda, segno di quello che possono essere le nostre comunità, luogo di cura

delle ferite del mondo, un “ospedale da campo”, come ama dire papa Francesco.

Quanto fece il samaritano è come un itinerario per passare dalla sola giustizia, che forse nella

nostra società sarebbe già molto, alla compassione e alla solidarietà. E il samaritano era un

estraneo rispetto a quell’uomo, anzi addirittura un potenziale nemico. Infatti tra samaritani e

giudei non correva buon sangue. Vediamo come si conclude la parabola evangelica. Era iniziata

con la domanda dell’esperto della legge: “Chi è il mio prossimo?”. La domanda finale di Gesù

rovescia quella del dottore della legge: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che

è incappato nei briganti?”. Per capire chi è il prossimo bisogna farsi prossimi a chi è nel bisogno.

Ecco il grande segreto del Vangelo che cambia già da oggi i rapporti umani: la compassione e la

misericordia, prendersi cura degli altri. Secondo Matteo 25 il giudizio finale sarà una domanda

sull’amore verso i poveri: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, sete e mi avete dato da bere,

ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e

siete venuti a trovarmi”. E direi anche che la compassione e l’amore per i poveri comunque c

ambiano la vita, l’aria che respiriamo, i rapporti, rendono il mondo più umano e più in

comunione. Non è anche questo un aspetto fondamentale di una convivenza civile e democratica?

Credo che le nostre comunità dovrebbero chiedersi chi è quell’uomo per le nostre comunità.

Certo, c’è tanta povera gente, tante famiglie in difficoltà, ci sono gli immigrati, gli anziani soli o

nelle RSA. Non dovremmo tuttavia anche pensare ai ragazzi e ai giovani, spesso inascoltati,

prigionieri dei social, facilmente disorientati e a volte depressi, in famiglie che sono pronti a

difenderli quanto poco ad aiutarli? Ma noi li ascoltiamo? Cosa significa per loro far parte della

famiglia che noi dovremmo essere?

 

La comunione come universalità nelle diversità

 

Negli ultimi decenni è apparsa la nuova categoria storica e sociale: la globalizzazione. Tanti

discorsi si sono schierati a favore di una globalizzazione a misura umana, dove i paesi e le

popolazioni più bisognose non si trovino ogni volta di più sottomesse alle leggi di un mercato

senza volto. Dopo alcuni anni di constatazione di come l’economia sia diventata quasi un assoluto

e i “pool” delle finanze internazionali controllino la vita concreta di molte persone, molti sono

d’accordo nella necessità di porre dei limiti alla globalizzazione.

Dall’altra parte, si argomenta che il processo è inarrestabile e che in un mondo globale il mercato

unico è l’unica soluzione possibile. In fondo, la globalizzazione rende commerciali quei rapporti

che dovrebbero essere prima di tutto segnati dal fatto che tutti siamo essere umani e che il

Signore non ha escluso nessuno dei beni della terra. Nelle società segnate dal primato

dell’economia e del mercato, dove tutto viene misurato secondo le leggi del profitto, diventa

difficile introdurvi altri elementi di analisi che non siano quelli che definiscono un paese per il suo

PIL. Si arriva così alla confusione tra “grande” e “ricco”, tra “importante” e “benestante”, come se

la misura di tutto fossero i beni materiali. Si è raggiunta una progressiva preoccupazione per i dati

economici, e l’Europa e in generale l’Occidente, ma anche le potenze emergenti (il gruppo BRIC:

Brasile, Russia, India, Cina), costruiscono delle società dove il benessere inghiottisce il convivere, la

cultura, la stessa religione, e dove la comunione tra le persone si indebolisce e finisce per sparire.

Come costruire un tessuto di comunione nella globalizzazione? Chi costruirà questo tessuto di

comunione? Come riannodare il tessuto lacerato e rammentato delle nostre città? Come ritessere

la tela dei rapporti nell’individualismo e nella solitudine crescente? Con quali basi si può proporre

un modello sociale che dia una risposta vera e necessaria a un bisogno riconosciuto da tutti? Il

Vangelo offre delle risorse spirituali straordinarie perché germogli e cresca un vissuto di

comunione e di fraternità che capovolga la freddezza e l’indifferenza delle nostre società. La

Chiesa è chiamata a essere a testimone della comunione, come lo è stata sin dall’inizio, in un

mondo globalizzato e spaesato dove le risorse economiche applicate ai servizi sociali aiutano a

risolvere solo una parte del problema. La vita cristiana emerge dunque come creatrice di umanità,

e quest’umanità passa per la comunione, per l’attenzione a quell’umanità concreta delle persone

che sono lasciate in disparte, che si trovano senza energie accanto alla strada. Abbiamo bisogno di

tanti samaritani. Tutto dipende dalla libertà di tante persone che si pongono la domanda giusta

sulla comunione, sul tessuto di comunione in cui dovrebbero convertirsi le nostre città. Il modello

insostituibile è quello di Gesù.

Nel Vangelo Gesù, che non è medico, si occupa dei malati, lui, che non è un pedagogo, si occupa

dei bambini, lui, che non è ricco, si occupa dei poveri. La vita di Gesù si potrebbe definire in termini

di comunione, e non è per caso che la Chiesa dei primi tempi ha impostato la sua vita sulla

koinonia, sull’unione fraterna, come si legge in Atti 2,42. Gesù non considera che lui e i suoi

discepoli debbano isolarsi dal mondo che li circonda. Non pensa per loro un percorso vitale

guidato dal “miglioramento personale”, neppure dal punto di vista religioso. Non li invita a fare

lunghissime meditazioni pensando a se stessi e alla loro purificazione interiore. Li invita a

riconoscersi peccatori, cioè, a sapere che spesso si allontanano dal bene e dal vero, e propone loro

di aprire il cuore alla misericordia, alla compassione dinanzi colui che è abbattuto oppure è stato

calpestato, colui che ha perso la gioia o si chiude sterilmente in sè stesso. Per Gesù, i discepoli

devono imparare a vivere un tessuto di comunione, devono comunicare la gioia del Vangelo.

La vita cristiana non si giustifica se non nei confronti del Signore Gesù Cristo. È lui a darle tutto il

sapore e la grandezza. È lui che la rende uno spazio di vita radicata nell’amore a Dio e al prossimo.

Ma Dio e il prossimo non sono lontani, belle idee da vivere senza un impegno personale preciso. La

comunione è appunto il modo di vivere concretamente il Vangelo. Senza comunione e senza

fraternità la vita cristiana diventa qualcosa che può aiutare a vivere ma che non è vita reale e vera.

Gesù ha vissuto la comunione con Dio, con i poveri, con i discepoli, con le folle, e non ha risposto

al male con il male a coloro che lo respingevano. Egli non ha escluso nessuno dalla sua amicizia,

non ha escluso neppure Giuda, che al momento dell’arresto chiamò ancora “amico”. E non era un

appellativo ironico per Gesù, come qualcuno pensa, ma reale. Lui ci credeva. Perciò, la comunione

è il cuore della vita cristiana e ne diventa modello di espressione per la società in cui i discepoli di

Gesù si trovano a vivere. Si diventa testimoni di comunione prendendo su di sé la vita di Gesù e

configurandosi a lui, avendo i suoi sentimenti e offrendo il dono ricevuto.

Il dono che i discepoli di Gesù hanno ricevuto per questo mondo è la grazia dell’unità, di essere

strumenti di fratellanza e umanità. In un momento in cui molti pensano che le differenze tra

popoli e religioni sono così grandi che non si può costruire una società del convivere e che, al

massimo, si può puntare per la coesistenza, per la tolleranza e per la non-aggressione, bisogna

insistere sulla comunione come tessuto e fondamento. E la comunione è anzitutto relazione, cura

delle relazioni. Quanto tempo dedichiamo a curare e far crescere le relazioni là dove siamo, dalla

famiglia alle nostre realtà comunitarie e associative? A volte siamo troppo donne e uomini pratici.

L’importante è fare, agire, organizzare. Ma non basta. La fede cristiana è comunione con Dio,

Padre, Figlio e Spirito Santo, che vivono in comunione di amore e di disegno salvatore. La fede

cristiana è comunione con l’umanità, nella misura in cui la Chiesa è “in Cristo come un sacramento

o un segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen

Gentium 1). La fede cristiana è comunione con i poveri, coloro che sono i preferiti del Padre e i

primi nella tavola del banchetto celeste. La fede cristiana è comunione con i fratelli e le sorelle che

confessano lo stesso Signore e lo seguono dove va. Precisamente sono questi i chiamati a

sviluppare un tessuto di comunione che non trascuri i poveri né gli afflitti, i bisognosi e coloro che

non hanno speranza.

In una parola, i cristiani portano al mondo una convinzione: essere sale e luce, costruttori di un

tessuto di comunione che vada oltre i piccoli spazi dell’attività di ognuno e i tanti io, individuali o

collettivi che siano, ma che si diffonda in tutte le terre. Gli effetti di questo atteggiamento saranno

enormi in un mondo abituato a essere diffidente di fronte alla bellezza dell’amore fraterno e una

diversità che non chiama ad omologarsi ad altri, ma a dialogare con gli altri offrendo la sua

ricchezza. Coloro che portano il Vangelo nel cuore sanno bene che non si può vivere senza

convivere, che non c’è unità senza comunione. L’enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco ci

indica la via per condividere questo senso della Chiesa con tutti. Infine, ma non per ultimo:

ricordiamo sempre che l’origine di ogni comunione viene da Dio, quindi dalla preghiera che

sempre vive in questa comunione con lui e tra noi. Essa è la sorgente di questa umanità irrorata

dalla Trinità Santa e dalla Parola di Dio fatta carne. Nel tempo di Quaresima soprattutto sia la

Parola di Dio “lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino” (Salmo 119,105). Leggiamola

perché sia l’alfabeto del nostro vivere come sorelle e fratelli e come luce di umanità, fraternità e

pace nel mondo.

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