Cari fratelli e sorelle,

il Signore ci raduna come un popolo di sorelle e fratelli in questa cattedrale, che rappresenta la storia millenaria di donne e uomini che hanno lasciato tracce straordinarie di una fede diventata cultura, irradiazione della presenza di Dio in questa terra. Il suo appellativo di Città dei papi è segno di unità e comunione con la Chiesa di Roma e con il suo vescovo papa Francesco, che mi ha nominato come vostro Vescovo e a cui mandiamo il nostro abbraccio e il nostro affetto. La cattedrale è il segno fisico dell’unità di una porzione di Chiesa, che ha le sue radici nella Parola di Dio che diventa vita e storia, come ben rappresentano anche i suoi stupendi dipinti, che le attribuiscono l’appellativo di “Cappella Sistina del medioevo”. Assieme alla Concattedrale di San Paolo in Alatri e ai patroni San Magno e San Sisto ci inseriamo in una storia millenaria, che oggi continua a manifestarsi nella sua ricchezza e bellezza. Non è superfluo sottolineare questa dimensione di unità in un mondo dove sembrano prevalere divisioni e inimicizie, dove gli “io”, individuali e collettivi che siano, prendono il sopravvento ogni giorno abituandoci alla prepotenza e alla prevaricazione sugli altri. La guerra in Ucraina e molti altri conflitti nel mondo non sono che l’apice di come la violenza segni sempre di più il mondo e, a volte, anche la nostra quotidianità.

Le letture che abbiamo ascoltato rappresentano l’inizio di una parte di quella storia che da Israele giunge fino a noi, ben espressa dalla predicazione di Giovanni Battista, che ci indica Gesù come l’inizio di un tempo nuovo, che non rinnega il passato, ma lo ripropone in modo nuovo. Il Vangelo di Gesù inizia con il Natale, che abbiamo da poco celebrato, ed è una Parola nuova che leggiamo come una novità, così come le generazioni che ci hanno preceduto. Da ogni Natale c’è un nuovo inizio, in cui siamo chiamati a chiederci che cosa significa seguire il Signore e non se stessi, ascoltare e vivere la sua Parola e non le nostre, uscire dall’abitudine a ripetere se stessi e le proprie consuetudini, immettendosi nella storia di questo tempo complesso e violento come portatori di pace e di speranza, di un cristianesimo nella storia, che incontra e ascolta le donne e gli uomini, si prende cura dei poveri e degli scartati, non lascia soli gli anziani e i malati, accompagna i piccoli e i giovani nella loro crescita culturale e spirituale. So quanto la preoccupazione per la domanda educativa sia stata a cuore al vescovo Lorenzo, che ringrazio per l’eredità che ci lascia.

La Chiesa vive nel mondo non per se stessa. Siamo in una terra bella, con tante ricchezze, a partire dalle donne e dagli uomini che la abitano. Ma è anche una terra che soffre, e non solo per le conseguenze della pandemia e della guerra. Penso al problema ambientale, a questo fiume che la attraversa, il Sacco, che era un bacino di biodiversità, e a come l’affarismo e il disinteresse abbiano compromesso la sua ricchezza. Ma penso anche alla solitudine degli anziani, a volte soli a casa o soli negli istituti, o allo spaesamento dei giovani, alle difficoltà delle famiglie, e alle tante sofferenze di questo tempo.

“Ecco l’agnello di Dio”, indica a noi Giovanni Battista. Quell’agnello è un umile e un mite, e per questo si è fatto servo, per portarci sulle spalle, per pendersi cura di ciascuno, soprattutto delle pecore ferite, malate, smarrite, disperse. Lo aveva detto già a Israele quel profeta che parlava durante la dispersione del suo popolo nell’esilio a Babilonia: “Mio servo sei tu, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. Badate bene: il servo è Israele, un popolo, che ritrova unità nella dispersione perché il Signore gli parla, e lo rende luce delle nazioni per portare la salvezza fino alle stremità della terra. Quanto è facile smarrirsi e disperdersi. La dispersione è diventata quasi un fatto normale, un’eredità della pandemia che ci ha resi più soli e anche più individualisti. Papa Francesco ci ha ammonito quel 27 marzo del 2020: “Siamo sulla stessa barca… nessuno si salva da solo”. Ma ci sono tanti che ancora credono di potersi salvare da soli e cercano di mettere al sicuro se stessi. Caro fratello, cara sorella, non ti salverai da solo! Noi siamo connessi, e non solo sui social, ma nella vita; siamo in vita per un dono di amore, non per nostra scelta, e continuiamo a vivere e a crescere per l’amore che sappiamo donarci. Lo vediamo in questo tempo di sofferenza quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri. Le nostre comunità, pur con i loro limiti, hanno mostrato che la solidarietà e la cura degli altri fanno vivere e rendono felici. So dell’impegno di voi sacerdoti, dei religiosi e religiose, che ringrazio per essere qui in tanti con il vescovo Lorenzo, a cui mi lega una bella amicizia, e della generosità dei tanti laici che insieme costituiscono questo popolo di sorelle e fratelli. Pian piano ci conosceremo e sono certo che continueremo a lavorare insieme nella vigna del Signore. Io vorrei vivere con voi questa semplice felicità, innanzitutto comunicando il Vangelo che è buona notizia e prendendoci cura gli uni degli altri. Sono qui per essere al servizio dell’unità e dell’amore reciproco, per vivere insieme la gioia di essere popolo, sorelle e fratelli tra noi e sempre con i poveri e gli ultimi. Solo insieme sapremo comunicare al mondo la bellezza e la gioia di essere discepoli dell’unico Maestro e Signore, colui che è venuto tra noi per servirci e prendersi cura di noi. Grazie Signore, perché nella fragilità e nella pochezza della nostra vita ci rendi grandi e primi solo nel servizio. Ci affidiamo alla protezione della Vergine Santissima, Madre di Dio e Madre nostra, che questa Cattedrale ricorda come Assunta in Cielo, perché sollevi il nostro sguardo verso di Te, Signore Gesù, affinché nella preghiera e nella Santa Liturgia possiamo ritrovare sempre quell’unità e quella comunione di amore che ci rendono tuo popolo nella diversità della nostra umanità.  Amen.

 

Ambrogio Spreafico

vescovo

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