Pensieri e parole per un tempo difficile

Cerco di cucire pensieri e appunti nati in momenti diversi in questa Quaresima “differente” dalle altre e “inattesa” per la pandemia prodotta da COVID-19. Una Quaresima più difficile del solito, ma che tende decisamente alla luce della Pasqua. E’ come se tutti avessimo ricevuto sul volto un terribile “uppercut”, che ci ha fatto barcollare e ci ha fatto quasi andare a tappeto. Ecco, siamo come un pugile “suonato” che si sta guardando attorno smarrito e sta cercando di rialzarsi nella speranza di trovare un appoggio e un punto fermo. La fede e la ragione ci aiutano tanto. Fiducia in Dio che non abbandona i suoi figli e fiducia nella scienza, attraverso la quale Dio continua a compiere dei miracoli, sono l’ossigeno che permette alla nostra vita di respirare anche in un momento problematico.

La prime parole che mi vengono in mente sono umiltà ed essenzialità. Questa transizione così tribolata è un bagno di umiltà per tutti. Quando saremo tornati a “quote” più normali, staremo tutti con i piedi più per terra, soprattutto perchè abbiamo provato il morso della fragilità e del limite. Non siamo “padreterni”. Inoltre, potremo apprezzare di più ciò che è ordinario e normale. Ci capita nella vita di tutti i giorni di abituarci alle piccole grandi cose di cui essa è costellata: la salute, il cibo, gli amici … Diamo tutto per scontato. Ma scontato non è. Basta un capriccio della natura e tutto – come stiamo sperimentando – viene messo in discussione.

Inoltre la misure per ridurre l’aggressività del contagio, in primis il distanziamento sociale e la mancanza di libertà di movimento, ci mettono in condizione di aver più tempo a disposizione: è bello allora riempirlo di qualità, riscoprendo abitudini, atteggiamenti e comportamenti disattesi per la fretta e la superficialità della vita di tutti i giorni. Siamo invitati a riscoprire certe cose non solo “per una volta”, ma “una volta per tutte”. Anche il rapporto con le persone “vicine” può riacquistare pacatezza, intelligenza, brillantezza, con la rimessa a fuoco di volti e di presenze. E questo non solo per le persone di casa, con cui condividiamo la “quarantena”, ma anche con gli affetti dai quali, per forza di cose, abbiamo dovuto prendere le distanze. Ci si offre un tempo “più disteso” per noi; un tempo “più disteso” per gli altri; e anche, perché no?, un tempo “più disteso” per il Signore. Mi vengono in mente delle parole molto significative dell’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso che sono tutto un programma: “Fate dunque molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo perché i giorni sono cattivi” (Ef 5,15). I giorni cattivi per il “Coronavirus” possono e debbono essere riscattati da una sorta di sapienza del quotidiano.

E in questa operazione sono molto importanti l’interiorità e la preghiera. Per i cristiani – e lo dico in maniera sommessa e discreta, col massimo rispetto per chi la pensa diversamente –  la preghiera è il respiro del cuore, lo spazio in cui alimentiamo la nostra coscienza di figli/e, di fratelli e sorelle. Sappiamo bene che è necessario pregare non tanto per suggerire a Dio ciò che deve fare quanto per essere trasformati e illuminati. La preghiera è uno stare davanti a Dio che è fedele alle sue promesse e dona un futuro a chi nutre la speranza. Pregare significa abituarsi a guardare la vita con gli occhi di Gesù Cristo e con la sapienza del Vangelo. Il Vangelo non ci propone cose strane. Ci offre una illuminazione che non è frutto di tecniche e di esercizi particolari, ma è la conseguenza di una nuova coscienza di noi stessi come figli, che hanno “conosciuto” il Padre, e degli altri come fratelli. Questa illuminazione ci fa vedere la realtà com’è e non come viene falsata dalla proiezione dei nostri desideri, delle nostre paure e dei nostri incubi. Nel momento della prova, però, i figli si rivolgono al Padre, senza vergognarsi di chiedere l’intervento del suo amore misericordioso e della sua potenza salvifica. Sicuramente, però, il marchio di autenticità della preghiera cristiana è il silenzio e l’ intimità filiale. Fuori dalle celebrazioni della fede e dalla preghiera comunitaria, la preghiera “vera” è “a luci spente”: “Quando tu preghi, entra nella tua camere, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,6).

 

Spendo un’ultima parola sul digiuno eucaristico di persone e comunità che dura da molti giorni. E ciò fa soffrire pastori e fedeli. Ma, anche qui, c’è un risvolto che merita una sottolineatura. C’è qualcosa di peggio che non avere il pane: è averlo a disposizione e non avere fame. Se osserviamo gli orari delle messe festive delle nostre città, rimaniamo impressionati. Il “pane” è offerto in mille modi e con una varietà di forme da soddisfare tutti i gusti. Eppure la nostra fede e la nostra vita cristiana, apparentemente, non avanzano di un millimetro. Forse, allora, questo digiuno, oltre a renderci più vicini alla fame eucaristica di tanti popoli, potrebbe riconciliarci con il sapore del pane. La fame ci farà apprezzare anche le briciole. Abbiamo bisogno di ritrovare il gusto delle briciole.

 

“Dov’è il vostro Dio?”, può dire qualcuno a noi cristiani in questo tempo difficile. E’ qui con noi a soffrire e patire. La Croce di Gesù Cristo ci dice che il Signore non ci libera dal male, ma nel male; non ci libera dalla sofferenza, ma nella sofferenza. Soprattutto, come sembrerebbe suggerire qualcuno, non bisogna interpretare la prova come una punizione. Gesù ha sempre rifiutato il legame tra il dolore (sofferenza e morte), la colpa e la punizione. Prima di guarire un cieco dalla nascita, agli amici che cercavano di interpretare quella cecità in termini di peccato, e di punizione, Gesù ha fatto capire che l’asse attorno a cui ruota la storia e il mondo non è il peccato, ma l’amore e la misericordia di Dio: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui sia manifestata l’opera di Dio” (Gv 9,3). E l’opera di Dio è la liberazione dei suoi figli.

 

+ Lorenzo Loppa

 

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